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Azadi (آزادی) in lingua Farsi significa Libertà ed è la parola finale chiave dello slogan Zan Zendegi Azadi (Donna Vita Libertà) che anima la rivoluzione in corso da più di sei mesi in Iran, da quando agenti della polizia morale a Teheran hanno fermato e picchiato la giovane ragazza di etnia curda Mahsa Amini fino a determinarne la morte, perché una ciocca dei suoi capelli spuntava fuori dallo Chador che, secondo la rigida legge islamica in vigore in Iran, ogni donna è obbligata a portare.
Le storie che formano questo piccolo libro le ho raccolte nel corso delle interviste che ho realizzato per la rubrica Lo stato del Diritto che conduco su Radio Radicale. Sono racconti agghiaccianti, che levano il fiato e il sonno, che confondono e inorridiscono, fanno commuovere e arrabbiare. E purtroppo lasciano su di noi un prepotente senso di impotenza.
Di fronte alla violenza spietata del regime iraniano, assassino e misogino, il Partito Radicale, pressoché solo in questi mesi, ha affiancato la lotta nonviolenta delle donne e del popolo iraniano. È stata la scelta naturale per un Partito che ha nel suo DNA la nonviolenza, la transnazionalità e soprattutto la libertà.
E oggi si può comprendere in maniera ancor più profonda e urgente la necessità di un movimento come il Partito Radicale che porta avanti, promuove e sostiene, isolato ma con tignosa costanza, il diritto universale di essere uomini e donne libere per tutti e ovunque nel mondo.
La libertà è ciò che vogliono le giovani donne iraniane, e a loro fianco anche i giovani uomini.
Libertà della quale sono stati privati ormai da 44 anni, da quando nel Paese si è instaurata la Repubblica Islamica, la forma di governo teocratico che niente ha di una repubblica, dato che possono essere eletti a governare solo coloro che hanno il gradimento dell’autorità religiosa suprema, l’Ajatollah, ma tanto ha di un’interpretazione integralista dell’Islam, spietatamente vessatoria verso alcune categorie, le donne e le minoranze religiose ed etniche, declinata in Sharia, la legge islamica che è legge dello stato iraniano e che è fatta rispettare attraverso i corpi di polizia militare e paramilitare dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, e dei Basij, corpo di volontari che ottengono in questo modo una serie di benefici dal Regime.
La cosidetta generazione Z, i giovani, ragazze e ragazzi che ormai vedono e si confrontano col mondo e i loro coetanei attraverso Internet e i Social, forse senza neanche saperlo ma solo avvertendo che solo questa modalità di lotta poteva risultare efficace davanti al popolo iraniano e davanti al mondo, si ispirano a Ghandi, padre della nonviolenza il cui metodo fu certo alla base anche delle lotte nonviolente, di importanza fondamentale per la secolarizzazione e la libertà della società italiana, di Marco Pannella, fondatore e leader del Partito Radicale.
Il Regime tortura e stupra le donne, impicca senza pietà giovani nella pubblica piazza, minaccia e avvelena centinaia di bambine. Compie su tanti di loro i peggiori crimini e torture fisiche e psicologiche all’interno delle prigioni, dove nessuno può vedere, celebra processi sommari. Il Regime controlla ogni persona fin da bambini, ne determina l’istruzione inculcando i precetti della religione, instillando l’odio per l’Occidente, per Paesi come gli Stati Uniti e Israele, che per il Regime sono regni di Satana.
Alle donne è impedito di ballare, di cantare, di sorridere in pubblico, di avere occasioni conviviali e festeggiamenti insieme agli uomini, di amare come vorrebbero.
Per chiunque, ma per persone quantomai vulnerabili in questo ambiente come possono essere i soggetti LGBT, è tremendamente facile, spesso basta la delazione per finire arrestati e condannati per un reato come quello di “guerra contro Dio” che porta fino alla pena di morte, pena che è inflitta senza battere ciglio ed è solitamente eseguita in breve tempo, all’alba, prima delle preghiere del mattino, in pubblico perché sia da esempio, come nel Medioevo.
Perfino i cani, perché impuri secondo il loro credo, non possono essere liberi e vivere, secondo le leggi di questo Regime: se portati a spasso, trovati in strada dalle guardie della polizia morale o dai Basij, vengono uccisi immediatamente davanti ai loro proprietari che per questo vengono inoltre sanzionati.
La reazione del Regime di fronte a questi giovani, senza un leader ma armati solo dei propri sogni, è sempre più terribile e spietata, la difesa di un’entità malvagia che si vede messa all’angolo da chi ha rinunciato a subire la paura che ha costruito per soggiogare il suo popolo.
Proprio quei giovani che, invece, hanno ora stabilito che valori, occidentali ma universali, come la libertà, la democrazia, la laicità siano quanto di più prezioso il Regime va togliendo al loro futuro, hanno deciso di essere pronti a sfidarlo e di offrire le proprie esperienze ed esistenze perché la Repubblica Islamica cessi al più presto di governare l’Iran.
Ancora non sanno come né quanto costerà, ed è per questo che noi, da quest’altra parte, non possiamo fare a meno di sostenerli e aiutarli, di premere a nostra volta sulle nostre istituzioni affinché abbandonino l’ambiguo atteggiamento di equidistanza che continuano a sfoggiare nelle relazioni diplomatiche con l’Iran e si schierino dalla parte dei diritti umani universali e della libertà.
Spero quindi che presto questi racconti rimangano soltanto un brutto ricordo di un regime brutale che sarà stato costretto a smettere di imprigionare nel terrore e torturare i suoi figli.
Azadi
Quando ho letto il bellissimo, dolorosissimo libro di Irene Testa mi è venuto in mente un recente viaggio a Praga, prima del quale ho avuto modo di vergognarmi di me: ho controllato su Google di quanto dovessi spostare avanti l’orologio, se di un’ora o due. Eppure avevo letto non da molto il dolente stupore di Milan Kundera – sublime scrittore di Brno, Moravia, Repubblica ceca – per l’Europa centrale cancellata dalle mappe geografiche e psicologiche occidentali. I Paesi dell’Est, li chiamavamo. “Dimentichiamo l’essenza della loro tragedia: sono scomparsi dalla carta dell’Occidente. Come si spiega che questo aspetto del dramma non sia stato quasi percepito?”, scrisse Kundera su Le Débat nel 1983, sei anni prima del collasso del comunismo sovietico e della Cortina di ferro.
Ho controllato su Google, e Praga ha il nostro stesso fuso orario. Mi sono riguardato la cartina d’Europa e ho avuto la millesima riprova che conoscere la geografia, pure in senso nozionistico, la geografia che da ragazzo era fra le poche materie su cui mi applicavo con qualche accanimento, e che ho dimenticato troppo presto, è necessario per capire la storia, la filosofia, la politica, noi ieri e noi oggi. Praga è sullo stesso meridiano di Napoli. E cioè Salerno è più a Est di Praga, e molto più a Est di Praga sono Matera, Bari, Taranto, Brindisi, Lecce. Eppure per me Praga era rimasta – come si diceva ai tempi del mio liceo, quando con Claudio Baglioni cantavamo Le ragazze dell’Est – capitale di un Paese dell’Est.
Vi starete chiedendo che c’entrino Praga e Milan Kundera con le proteste delle ragazze iraniane, di buona parte della società iraniana, contro la sharia degli ayatollah, e che cosa c’entri il comunismo reale con la sanguinosa repressione del governo teocratico di Teheran. Ma se leggete le interviste di Irene e leggete le parole di Kundera, troverete che le parole per invocare libertà sono sempre le stesse.
Kundera cercava di spiegare il senso profondo delle rivolte di Budapest 1956 e di Praga 1968, e dei movimenti antisovietici ungheresi, cechi, polacchi, dei movimenti di paesi che si sentivano pienamente partecipi e anzi protagonisti della vita e della cultura europea: “Per questo l’Europa che chiamo centrale avverte che il mutamento del suo destino dopo il 1945 non solo è una catastrofe politica: è come se venisse messa in discussione la sua stessa civiltà. Il senso profondo della loro resistenza è la difesa di un’identità: la difesa della loro occidentalità”. Le rivolte di Budapest 1956 e di Praga 1968 furono spazzate via con i carri armati e a Praga mi ha fatto una violenta impressione percorrere piazza San Venceslao, che somiglia più a un lungo viale, alla ricerca del piccolo monumento commemorativo di Jan Palach, lo studente che nel gennaio 1969 si diede fuoco per protestare contro la tirannia comunista. Quella piazza, oltre mezzo secolo fa incatenata al suo servaggio coi cingoli dei carri armati, perché Mosca la voleva sottomessa, non la voleva occidentale ma slava (“Ai russi piace definire slavo tutto ciò che è russo, in modo da poter poi definire russo tutto ciò che è slavo”. Lo disse già nel 1844 il grande scrittore ceco Karel Havlíček, e ce lo ricorda ancora Kundera), ed oggi è una piazza milanese o parigina, con la sua sfilata di negozi Prada e H&M e Foot Locker. Eccolo lì il maledetto Occidente consumistico, al posto dei carri armati.
Forse io, nato un mese prima dello sbarco sulla Luna, ovvero al culmine tecnologico della Guerra fredda, sono semplicemente figlio dei miei tempi e dei miei tic. Probabilmente un ragazzo di oggi non ha addosso le mie scorie, e per lui è ovvia l’occidentalità di Praga, ma in me è evidente che i confini dell’Occidente non sono geografici ma culturali. E lo era in Kundera, secondo cui l’Europa è un’unica identità “radicata nell’antica Grecia e nel pensiero detto giudaico-cristiano”. Mentre “la civiltà del totalitarismo russo” (non la Russia, la civiltà totalitaristica) è “la negazione dell’Occidente (…) fondato sull’ego che pensa e dubita”, sempre da Kundera. E dunque, quanto è a Est oggi Kiev? Kiev che come Budapest e Praga, e poi Varsavia, sceglie il mondo culturale occidentale, e come Budapest e Praga, e poi Varsavia, è inchiodata dall’invasione armata alla sua pretesa natura satellitare slava, quanto è a Est e quanto è occidentale?
Allora, ai tempi di Praga e Budapest, potevamo fare poco, il mondo era stato irrimediabilmente diviso a Yalta, ma Kundera era stupito e più ancora amareggiato perché “le rivolte centroeuropee non erano sostenute dai giornali, dalla radio, dalla televisione”, e cioè il mondo politico era paralizzato da un inviolabile assetto, ma il mondo culturale era distratto, assopito, indifferente. E dunque ora tocca chiedersi: quanto è a Est e quanto è occidentale Teheran? La nostra distrazione, il nostro assopimento, la nostra indifferenza per la feroce repressione della rivolta dei ragazzi iraniani, quanto ha a che fare (oltre che con un nostro non marginale antioccidentalismo, per cui dimentichiamo che dove c’è Foot Locker c’erano i carri armati) con un pregiudizio geografico e culturale? In fondo l’Iran, sull’atlante, sta nell’altra pagina.
Pochi anni fa, Einaudi ha pubblicato un bellissimo libro di Sadīd al-Dīn Muḥammad Awfī (Le gemme della memoria), sapiente e scrittore persiano del Dodicesimo e Tredicesimo secolo. Già la prefazione di Stefano Pellò apre a un mondo magnifico, assetato di sapere e di contaminazione, di ecumenismo bibliofilo che a Bagdad (oggi capitale dell’Iraq) fonda la Casa della Saggezza, luogo pubblico della cultura islamica e occidentale, dunque universitaria, e a Cordoba (Spagna) apre settanta biblioteche, quante le vergini che solo nella declinazione moderna della fede islamista sono promesse al martire che immolandosi fa carneficina degli infedeli. Awfī rimescola la cultura greca, romana, cinese, indiana, naturalmente persiana, si rifà ad Alessandro Magno, ad Aristotele su cui ha studiato Averroè, musulmano di Spagna, per incrociare la filosofia greca e islamica, e poi a Roma, a Re David, a Zoroastro, in un vertiginoso tuffo nell’ibridazione del sapere e dell’incontrarsi. È tutto quanto – come Mosca a Budapest e a Praga e adesso a Kiev – Teheran rifiuta: l’Occidente. Che quelle ragazze si tolgano il velo dalla testa, vogliano amare e ballare e ascoltare musica a cielo aperto, leggere e studiare e pensare al futuro come intendono pensarlo, vogliano ribellarsi ai precetti carcerieri della sharia, vogliano non tanto diventare come noi, ma ricongiungersi a noi, in una nuova Casa della Saggezza, ecco è questo che fa orrore ai satrapi traditori della sapienza persiana.
I confini fra Occidente e Oriente sono un inganno. Lo sono sia geograficamente sia psicologicamente, e noi abbiamo escluso dalla cultura europea prima Budapest e Praga come ora escludiamo Teheran. Potremmo fare molto: parlarne, scriverne, discuterne, fare sentire a quelle ragazze e a quei ragazzi una vicinanza culturale, come se fossimo dentro una biblioteca di Siviglia, perché un giorno arriverà un altro Kundera, un Kundera persiano, e ci chiederà: perché non ci avete considerati vostri fratelli e vostre sorelle, perché non avete percepito il nostro dramma?
Edito da Stampa Alternativa e Irene Testa.
Ho raccolto delle storie, realizzate grazie alla voce dei protagonisti per la rubrica “Lo stato del Diritto” che viene trasmessa sulla rete nazionale di Radio Radicale.
Ho ritenuto che questi preziosi racconti andassero pubblicati perché mostrano una fotografia del dolore che tutti noi, da cittadini, rischiamo ogni giorno di subire.
A causa di un sistema arroccato nella celebrazione e conservazione del proprio status quo anziché del diritto, dei diritti, della democrazia della Repubblica.
Questo è il momento giusto per farlo.
In primavera, grazie al referendum promosso dal Partito Radicale e dalla Lega, gli italiani avranno l’occasione di cambiare alcune distorsioni del sistema del quale queste storie sono la viva testimonianza.
Irene Testa
Eccola la frase che ti fa tornare a respirare, che ti restituisce alla vita, anche se la vita per molti non sarà più quella di prima. Il fatto non sussiste, e invece sussiste eccome. Ed è quello che ti ha scaraventato all’inferno senza un motivo. Che ha distrutto la tua vita e quella dei tuoi cari.
Il fatto sussiste, si chiama malagiustizia, errore giudiziario, sciatteria, malafede. Tutto quello che travolge una persona che mai avrebbe immaginato un incubo dal quale districarsi, perdendo dignità, salute e soldi. Le storia qui raccontate sono le vite degli altri, ma domani o dopo potrebbero accadere a tutti. Io lo so bene.
Ogni giorno tre innocenti finiscono in carcere per errore, parliamo di oltre 1000 cittadini all’anno. Spesso le cause sono banali. Un errore di persona, un accertamento mancato, le falsità senza riscontro. E facile (fin troppo) finirci in quel fatto che non sussiste. Diventa però complicatissimo dimostrarlo. Le storie raccolte da Irene Testa sono le nostre storie. Ci appartengono anche se non le abbiamo vissute. Perché solo una coscienza collettiva dell’importanza di una giustizia giusta e di uno Stato di diritto ci aiuterà a dimostrare veramente che il fatto…non sussiste.
Edito da Stampa Alternativa e Irene Testa.